Le parole pronunciate da Paolo Borsellino che gli italiani non hanno mai ascoltato. Il 31 luglio del 1988 il giudice palermitano denunciava con forza davanti al CSM l’inadeguatezza dei mezzi di contrasto attivati dallo Stato contro la Mafia. Borsellino parla per oltre 4 ore con straordinaria e diretta lucidità. Quella audizione arriva per la prima volta in scena raccontata da Ruggero Cappuccio.
“Per quanto riguarda la situazione delle forze di Polizia denunciai l’avvicendamento continuo e adoperai anche una frase piuttosto pesante parlando, addirittura di gioco delle tre carte, nel senso che quei pochi uomini che c’erano venivano fatti girare, ma erano sempre gli stessi, solo che uno lo si metteva alla Squadra Mobile, poi lo si spostava al Commissariato di Marsala, poi a Mazzara.
O parliamo per enigmi dicendo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica, e la gente non capisce bene cosa significa, oppure questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: “C’è un organismo centrale delle indagini antimafia che in questo momento non funziona più”.
Questo rispondeva Paolo Borsellino al CSM, il 31 luglio 1988: era stato convocato per le interviste rilasciate ai quotidiani “La Repubblica” e “L’Unità”, nelle quali aveva denunciato il preoccupante stato di smobilitazione del pool antimafia di Palermo. Minacciato dall’ombra di imminenti provvedimenti disciplinari, il magistrato parlò per quattro ore di fila: dalle dieci alle quattordici. Nel pomeriggio fu invece ascoltato Falcone.
Brani di questa audizione tesissima, mai resa pubblica integralmente, entrano ora in Paolo Borsellino Essendo Stato, racconto scenico di Ruggero Cappuccio, che lo stesso autore porterà in scena.
Davanti al Csm i due magistrati affrontarono con chiarezza i delicatissimi temi inerenti l’assegnazione delle indagini, l’inserimento nel pool di nuovi giudici senza l’adozione di criteri di sicurezza, l’affidamento di procedimenti sulla criminalità mafiosa a magistrati estranei al pool. Dalle loro parole appassionate emergono i complessi scenari che fanno da sfondo alle indagini sul fenomeno mafioso, ma anche lo spirito di sacrificio di chi, pur accerchiato e consapevole delle occulte relazioni tra criminalità organizzata e Stato deviato, aveva deciso di non arretrare.
Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso, quattro anni dopo, il 23 maggio 1992 nell’attentato di Capaci. Paolo Borsellino 57 giorni dopo di lui, in via D’Amelio, a Palermo.
Proprio su via D’Amelio, o meglio sull’ultimo secondo di vita di Paolo Borsellino, il 19 luglio del 1992, si concentra il testo di Ruggero Cappuccio, che dilata questo singolare residuo di tempo in un intenso monologo.
Il giudice disteso sull’asfalto, dubita di essere già morto e dubita di essere ancora vivo.
In questa dimensione di lucidità entrano i sogni, l’infanzia, la giovinezza, l’amore di Borsellino per la sua Sicilia aspra e luminosa, per la sua famiglia e per chi ha cercato di proteggerlo e sta morendo con lui. Ma c’è anche l’amico Giovanni Falcone, dall’adolescenza fino all’ultimo abbraccio nel giorno di Capaci.
E c’è la denuncia della solitudine in cui i due magistrati sono stati lasciati, perché esiste una parte deviata dello Stato che vuole controllare la piaga rappresentata dalla mafia ma non guarirla: di quell’infezione ha infatti bisogno, anche per mettere a morte le parti sane del suo corpo che desidera siano messe a morte.
Il testo, scritto nel 2004, è stato portato in scena anche da magistrati della Procura di Salerno, di Milano e di Trieste, che hanno voluto fare propria questa denuncia civile. La nuova versione, che include le dichiarazioni davanti al Csm, ci restituisce ancora di più, con la drammatica evidenza delle sue parole, Paolo Borsellino come un eroe moderno lontano dalle tentazioni della retorica.
“Palermo non mi piaceva” dice nel monologo “per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace, per poterlo cambiare”. Con questa breve riflessione Paolo Borsellino svela il senso più segreto del suo essere uomo e del suo essere giudice.
La sua giovinezza e gli anni difficili della sua maturità sono ispirati ad una tensione vitale che oscilla tra passione per la memoria e progetto instancabile per una costruttività del futuro.
La sua singolare esperienza esistenziale porta con sé i tratti inequivocabili dell’eroe. Un eroe moderno. Un eroe lontano dalle tentazioni della retorica.
Un eroe che si batte senza armi contro le armi; senza violenza contro la violenza; senza protervia contro omicidi, stragi, tradimenti. Forte unicamente della sua spiazzante lealtà intellettuale, di un intuito espresso a livelli altissimi, Paolo Borsellino è l’incarnazione di eroe psicologico in grado di sacrificare il proprio corpo e i propri affetti per un’idea:
la giustizia. Questo profilo di un artefice umano che costruisce il proprio coraggio per donarlo agli altri ha affascinato i grandi tragici dell’antichità, le letterature di tutti i tempi e di tutto il mondo. Le esistenze di Borsellino e Falcone hanno operato un mutamento insolito. Per molti giorni, per mesi, per una tenace minoranza tutt’oggi, gli italiani hanno assistito e partecipato con entusiasmo e dolore ad una vera e propria reincarnazione di ideali ispirati alla giustizia che deviazioni politiche e mafiose avevano tacitato sotto la polvere di una pretesa retorica.
Lo Stato, l’appartenenza dei cittadini ad esso, l’equità, il coraggio, sono passati dallo stadio vuoto delle “parole” a quello limpido e in arrendevole dei “fatti”.
I cinquantasette giorni in cui Paolo Borsellino vive dopo la morte a Giovanni Falcone, fanno del giudice sopravvissuto un uomo solo, accerchiato da elementi deviati dello Stato e della politica, da Cosa Nostra e dall’indifferenza collettiva come prodotto culturale raffi natissimo atto a seppellire la verità.
Senza Falcone, senza l’uomo che Borsellino stesso definiva “il suo scudo”, il magistrato elabora la certezza matematica della propria fine.
A più riprese disegna come imminente la propria morte a colleghi ed amici con allusiva eleganza. Malgrado ciò rimane. Rimane in Sicilia, rimane a Palermo, rimane fedele a un’idea, a Falcone, a sé stesso. A condividere la sua coscienza della fine è innanzi tutto il mondo femminile, composto da sua madre, sua moglie, sua sorella, le sue figlie, oltre naturalmente a suo figlio Manfredi. Questa partecipazione silenziosa al destino di chi combatte in una sfida con un finale già scritto, torna a parlarci di una consapevolezza tutta classica in cui alla dignità dell’eroe fa riscontro la dignità di chi dovrà piangerlo e continuarlo ad amare nell’assenza del corpo.
La messinscena di Ruggero Cappuccio allinea accanto a Borsellino le figure di cinque donne, Antigoni, memorie di un’infanzia perduta intesa come età della perfezione, della bellezza. Il femminile distilla un’idea calda e solare della terra, in una parola della Sicilia stessa.
Il lavoro si sviluppa in un concentrato di suoni e immagini tese ad esaltare il contrasto tra la spudorata bellezza dell’isola e i suoi umori notturni. L’ironia si rivela come una qualità in grado di percorrere il dramma per svelarlo con più forza e più direzionalità in tutta la sua crudezza. L’azione prende l’avvio dal diciannove luglio 1992. Alle ore sedici e cinquantotto in via D’Amelio, a Palermo, un attentato pone fine alle vite del giudice e degli uomini che lo stavano proteggendo: Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi.
Nell’ultimo decimo di secondo tra l’esplosione e la morte, Paolo Borsellino ricompone memorie e sogni della sua vita. Parla, racconta. Dubita di essere ancora vivo. Dubita di essere già morto.
La messinscena deflagra in dodici movimenti, quanti sono quelli di uno Stabat Mater, addensando frasi, sussurri, visioni. Ed è appunto uno Stabat Mater doloroso, la prima parte. Il giudice, quell’ultimo giorno, andava a far visita a sua madre: una madre consapevole, metafora e incarnazione del dolore cosciente e fiero di un’altra Sicilia, di quella più invisibile e più vera.