Lo sgravio dell’Irpef ci sarà e venerdì verrà presentato un provvedimento che ne spiegherà le modalità. In attesa che ciò avvenga, i tecnici lavorano ai tecnicismi per mettere in tasca agli italiani – con redditi annui fino a 25mila euro – i famosi 1.000 euro all’anno. Sullo sfondo, però, si muove il rischio (calcolato) che la misura porti un beneficio concentrato nelle famiglie che tutto sommato hanno una discreta tranquillità economica, alle quali potrebbe andare più della metà delle risorse, mentre chi è nei pressi della soglia di povertà si vedrebbe assegnato meno di un decimo degli stanziamenti governativi.
Il rischio è stato presentato al Parlamento dall’Istat, che ha esposto la sua posizione sul Def in audizione alla Camera. Il punto di partenza è che il governo interverrà con una ulteriore rimodulazione delle detrazioni Irpef. Si parla di “ulteriore” perché il 2014 è già stato interessato dalle modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità di Enrico Letta, che ha alzato ad esempio a 1.880 euro la detrazione di base e portato benefici a scendere per i redditi fino a quota 55mila euro.
Gli economisti dell’Istituto di statistica hanno ipotizzato di spalmare il beneficio di 10 miliardi complessivi annunciato da Renzi su una platea composta dalle classi di reddito fino a 25mila euro lordi annui, con un aumento lineare delle detrazioni che si sommi a quello voluto da Letta (che da solo pesa per altri 1,8 miliardi). E’ chiaro che si tratta di un’ipotesi, della quale l’esecutivo terrà conto ma che poi potrebbe essere sovvertita dai fatti.
All’Istat hanno diviso le famiglie beneficiarie per “quinti di reddito”, cioè ordinandole dalle più povere alle più ricche (cinque gruppi di uguale numero) prendendo in considerazione non solo il reddito efettivo della famiglia, ma ponderandolo per il numero di membri e il loro “peso” nel nucleo (diverso tra adulti e minori). Applicando le detrazioni lineari a questa graduatoria si scopre che il guadagno medio annuo è più alto per le famiglie al centro della scala (796 euro per il secondo gruppo e 768 euro per il terzo), mentre al primo vanno 714 euro. Certo, in rapporto al reddito si sale dal 3,4% dei più poveri allo 0,7% dei più ricchi. Ma per l’Istat “solo il 9,5% della spesa totale viene erogata alle famiglie appartenenti al quinto di reddito più povero. Più della metà della spesa totale”, prosegue l’Istat, “viene assegnata a individui in famiglie appartenenti al terzo e quarto quinto, con redditi equivalenti medi e medio-alti. I beneficiari costituiscono il 39% circa degli individui appartenenti ai due quinti più ricchi e solo il 12,3% di quelli del quinto più povero“.
Grafici: i benefici per le famiglie
Una ulteriore distorsione rischia di nascere dalla presenza di figli adulti o minori; se i primi sono occupati e dipendenti, portano in dote alla loro famiglia una detrazione che fa aumentare il numero di beneficiari rispetto ai nuclei dove sono presenti figli minori, che sfuggono al beneficio non avendo imponibile. In base a questo modello, conclude l’Istat, si avrebbe “una variazione contenuta della diseguaglianza economica misurata dagli indici di concentrazione, progressività e redistribuzione del reddito”; effetti positivi, invece, per la “riduzione della percentuale di individui a rischio di povertà relativa, con un calo dell’incidenza pari a quasi un punto percentuale. Il maggiore beneficio si registrerebbe per gli individui residenti nelle regioni del Sud”.
Va ricordato che il governo sta studiando degli importanti correttivi, che permettano ad esempio di includere nel beneficio anche gli “incapienti”: coloro che sfuggono al beneficio perché guadagnano talmente poco (meno di 8mila euro) da non avere imponibile. Quasi quattro milioni di persone che potrebbero ricevere complessivamente 1 miliardo, ma con un rimborso in busta paga o con una diversa forma d’erogazione (possibile che venga coinvolto l’Inps).